GIANCARLO
LANCELLOTTI, Il pugnale votivo di Gabriele
d'Annunzio. Orazioni e messaggi fiumani 1921-1931, Trieste, Hammerle Editori,
2003.
Recensione:
Ma il fascismo guardava con diffidenza il
poeta-soldato
La storia non si fa con i se, come insegnano i professori,
ma di certo l’Italia sarebbe stata diversa «se» la stella di Gabriele D’Annunzio non fosse stata oscurata dal
futuro Duce del fascismo Benito Mussolini. I due percorsi politici si divaricano definitivamente durante e dopo
l’impresa di Fiume (settembre 1919 - dicembre 1920), che Mussolini guarda da lontano, con apprensione e
diffidenza, perché un eventuale successo avrebbe lanciato una volta per tutte il Comandante nel firmamento della
politica italiana. Ma non si trattava solo di invidia. A dividere i due uomini del destino c’era soprattutto lo
stile e la visione politica. D’Annunzio, nell’embrione di stato che costruisce a Fiume (si veda la Carta del
Carnaro), privilegia la fascinazione della parola piuttosto che l’uso della violenza, si circonda di fedelissimi
che provengono dalle più disparate aree politiche e culturali, nazionalisti e fascisti, certo, ma anche
sindacalisti rivoluzionari, socialisti, anarchici, garibaldini. Quando deve dirimere il conflitto tra lavoratori e
imprenditori, alla fine prende le parti dei lavoratori; non vuole essere sospettato di antisocialismo; tutela gli
ebrei; considera l’Ammiraglio Horthy, che aveva stroncato la repubblica sovietica di Béla Kun in Ungheria,
«responsabile d’aver instaurato la più feroce delle reazioni». È merito dello studioso triestino Giancarlo
Lancellotti aver ordinato e èdito per la prima volta il testo «Il pugnale votivo» che raccoglie, secondo la
volontà del poeta-soldato, gli scritti e le orazioni che hanno costellato l’ambigua esperienza fiumana («Il
pugnale votivo di Gabriele D’Annunzio. Orazioni e messaggi fiumani 1921-1931», pagg. 152, euro 20, Hammerle
Editori). Si tratta, come scrive Cristina Benussi nell’introduzione, di un lavoro «assolutamente libero da
pregiudizi ideologici, che ha preso in esame, con pacato disincanto, il crogiuolo fiumano. E vi ha scorto tutti
gli elementi che conteneva, socialisti, comunisti, filobolscevichi, anarchici e fascisti». Si conferma e si
rafforza, testi alla mano, la strada interpretativa aperta da Renzo De Felice sulla forte concorrenzialità tra
D’Annunzio e Mussolini. Ma cosa ferma D’Annunzio nella sua possibile – e auspicata da molti – ascesa politica?
Probabilmente, in lui, la letteratura prende il sopravvento sulla politica. «Il vate infatti – scrive ancora
Cristina Benussi – giocava su più tavoli, e programmava la pubblicazione sia di opere che certamente erano
richieste per la loro popolarità letteraria sia di altre che avrebbero potuto ribadire, se non rilanciare, proprio
il suo ruolo di guida politica». Ma il suo tempo si è consumato, come dimostra anche la lunga e tormentata vicenda
de «Il pugnale votivo», che dieci anni dopo l’impresa di Fiume, nel 1931, avrebbe dovuto pubblicare, appunto, «le
orazioni e i messaggi fiumani». Operazione defatigante per il poeta, quasi recluso nel Vittoriale, che da una
parte deve attenuare le posizioni polemiche nei confronti di Mussolini, dall’altra deve correggere la prosa di
testi che avrebbero dovuto fare la storia. Un esempio riportato da Lancellotti è particolarmente significativo: la
modifica del «Bollettino Ufficiale», che da freddo rapporto burocratico diventa uno scritto quasi letterario. Si
scrive sul Bollettino: «Il Comandante ha caro il N. (numero) 14, multiplo del 7, il suo numero perfetto. Ma c’è
modo di ingannare il destino». Il testo rivisto da D’Annunzio diventa: «Sorridendo il Comandante confessa la sua
superstizione del numero. Gli piace il quattordici che contiene due volte il sette, perfettissimo numero: bis
septem, nel modo di Vergilio. Ma v’è un’arte d’ingannare la sorte». Lo stile innanzitutto. Alla fine D’Annunzio,
ricorda ancora Lancellotti, si chiude e si compiace della sua «solitudine» di vaga suggestione superomistica, che
se «può essere propizia all’ispirazione lirica e poetica in generale, mal si concilia con l’oratoria e
l’eloquenza, cui l’isolamento ripugna in modo essenziale». E così si consuma l’isolamento politico del poeta,
mantenuto e drogato dalla cocaina di regime. Ogni tanto riemergerà con incontri e interventi nei confronti dell’ex
amico e rivale, come per opporsi, a Verona nel settembre del 1937, al prossimo patto d’acciaio tra Mussolini e
Hitler. Dopo essere stato trattato freddamente da Mussolini, Gabriele D’Annunzio se ne ritorna al Vittoriale
affranto e angosciato, consapevole che la sua amata Italia sta andando verso la rovina. Il vate morirà il primo
marzo 1938, per emorragia cerebrale, ma c’è anche chi sospetta che la sua cameriera, Emy Heufler, che subito dopo
la morte di D’Annunzio andrà al servizio di Ribbentrop, ministro degli Esteri della Germania nazista, abbia avuto
il compito di affrettare il suo declino o la morte, a causa della sua manifesta ostilità nei confronti del
nazismo. Ma questa è un’altra storia...
Franco Del Campo "Il Piccolo", 11/4/2003
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